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La riforma dello sport per gli affidamenti in gestione degli impianti sportivi pubblici: criticità ed esigenza di un “correttivo”
Si è parlato molto in questi ultimi mesi della riforma dello sport. Al centro però dell’attenzione dei più è stato il nuovo inquadramento giuslavoristico dei collaboratori sportivi, concentrando i commenti sul relativo d.lgs. 28 febbraio 2021, n.36. Meno risalto è stato dato al decreto di riforma riguardante gli impianti sportivi emanato in pari data: il d.lgs. 38/2021 “recante misure in materia di riordino e riforma delle norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi e della normativa in materia di ammodernamento o costruzione di impianti sportivi”.
In questo approfondimento ci concentriamo su uno solo degli articoli di questo complesso provvedimento e specificamente sull’art. 5 relativo alle procedure di affidamento degli impianti sportivi pubblici a favore di associazioni e società sportive senza scopo di lucro, le cui previsioni, unitamente a quelle dell’intero decreto delegato, avrebbero dovuto rispondere ai seguenti criteri stabiliti dalla legge delega (L.86/2019):
- semplificazione e accelerazione delle procedure amministrative;
- individuazione di un sistema che preveda la possibilità di affidamento diretto dell’impianto già esistente alla società o associazione utilizzatori.
Il decreto che ne è derivato (il d.lgs. 38/2021) solo apparentemente risponde ai due obiettivi posti nella legge delega, ma nella realtà dei fatti non apporta né una significativa semplificazione delle procedure – e basti leggere il complicato e farraginoso art. 4 per rendersene conto -, né un efficace sistema di “affidamento diretto”, affrontato nell’art.5.
Analizzando il contenuto dell’art.5 ne evidenziamo le criticità.
1a criticità: limitazione ai soggetti senza fine di lucro
Innanzitutto, la norma si riferisce solo a ASD o SSD senza scopo di lucro. Una società con scopo di lucro, pertanto, non potrebbe essere beneficiaria di questa disposizione di affidamento di un impianto sportivo pubblico. Prevale il concetto che nessun privato possa avere un lucro (guadagno soggettivo) dalla gestione di un impianto sportivo pubblico. Già in questa limitazione si ravvisa una prima criticità: la necessità di tenere gli impianti in buono (o ottimo?) stato di manutenzione richiede ampi investimenti. Consentendo ai privati investitori di intervenire con propri capitali remunerati anche con la diretta partecipazione agli utili, si potrebbe avere una maggior numerosità di soggetti disposti a rischiare i propri capitali nella gestione di un impianto sportivo.
Si comprenderebbe l’esclusione dei soggetti con scopo lucrativo se si trattasse di impianti senza rilevanza economica. La lettura della norma però non porta a questa conclusione, anzi.
Da un lato, infatti, si ravvisa che il legislatore nell’art. 5 non ha voluto proprio far riferimento alla tradizionale distinzione tra impianti “con” e impianti “senza” rilevanza economica. La gestione degli impianti sportivi senza rilevanza economica è quella che deve essere assistita dall’ente pubblico mediante un contributo finanziario, poiché la gestione non è in grado di sostenersi da sola. Quella degli impianti sportivi con rilevanza economica è invece in grado di “auto-sostenersi” e di produrre reddito (un margine positivo tra ricavi e costi).
Da altro lato si evidenzia che dalla lettura dell’art.5 traspare come gli impianti oggetto di affidamento debbano produrre un margine positivo, rientrando in quanto tali tra gli impianti “con” rilevanza economica.
Pertanto, se è corretta questa lettura, perché escludere dall’affidamento soggetti con finalità lucrativa?
2a criticità: impianti “con” rilevanza economica
Si corrobora la conclusione che gli impianti sportivi cui si riferisce l’art. 5 siano “con” rilevanza economica dal momento che l’affidamento è condizionato alla presentazione all’ente locale di “un progetto preliminare accompagnato da un piano di fattibilità economico finanziaria per la rigenerazione, la riqualificazione e l’ammodernamento”. Ora, se si prevede l’obbligo di presentazione di un progetto di rigenerazione, riqualificazione e ammodernamento ne deriva che necessariamente sussiste un investimento. Se vi è un investimento iniziale, è necessario produrre nel tempo risultati positivi in grado di recuperare l’investimento iniziale, salvo voler ipotizzare contributi in conto esercizio o in conto impianti a carico dell’ente concedente (sottoposti al limite del 49% di cui all’art. 183 del codice dei contratti pubblici?), creando però così una discriminazione ed una distorsione del sistema di affidamento certamente a rischio di ricorsi da parte di potenziali terzi esclusi dall’affidamento medesimo.
È certamente possibile ipotizzare un contributo pubblico, ma in questo caso il contributo assume nella sostanza la veste di corrispettivo per il servizio ricevuto dal privato introducendo ad un’ipotesi di appalto di servizi, per il quale l’affidamento “diretto” non sembra l’istituto giuridico ortodosso, dovendosi invece rispettare i criteri di imparzialità della pubblica amministrazione perseguiti dal codice dei contratti pubblici citato, criteri garantiti solo dall’espletamento di una gara.
3a criticità: l’affidamento “diretto” “gratuito” e l’imparzialità della pubblica amministrazione
Tema collegato a quello che l’impianto da affidare in gestione sia “con” rilevanza economica è quello riguardante la “gratuità” dell’affidamento e cioè la rinuncia dell’ente pubblico a richiedere un canone per la messa a disposizione dell’impianto al gestore privato.
Da un punto di vista logico i due temi sono tra loro contrastanti: infatti se un impianto è “con” rilevanza economica e quindi produce risultati positivi perché l’affidamento dovrebbe escludere la corresponsione da parte del gestore privato di un canone all’ente pubblico concedente?
La “gratuità” si sposa con l’affidamento di un impianto che non produce margine di redditività e quindi di un impianto “senza” rilevanza economica, affidamento che anzi possa prevedere anche un contributo pubblico a sostegno delle spese di gestione, come precedentemente evidenziato.
Questa incoerenza non può che accentuare il distacco degli amministratori locali dall’applicazione concreta di questa normativa. L’imparzialità della pubblica amministrazione rappresenta uno dei capisaldi dell’azione amministrativa pubblica. Affidare “direttamente” un bene pubblico ad un privato per la gestione e peraltro “gratuitamente” e senza un confronto competitivo rappresenta certamente un rischio per l’amministratore locale in mancanza di regole certe e condivise a livello nazionale.
4a criticità: la documentazione da produrre
Altro tema che non sembra andare nella direzione della semplificazione riguarda i due documenti richiesti dalla norma e cioè il “progetto preliminare” accompagnato dal “piano di fattibilità economico finanziaria”, il cui contenuto minimo non viene codificato e, di fatto, demandato al singolo proponente concessionario.
In merito al “progetto preliminare”, rileviamo che secondo il codice dei contratti pubblici vigente la progettazione in materia di lavori pubblici si articola secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici in “progetto di fattibilità tecnica ed economica”, “progetto definitivo” e “progetto esecutivo” (art. 23 del D.lgs. 50/2016).
Con la riforma del Codice approvata in prima battuta lo scorso dicembre, i livelli sono ridotti a due (art.41), con l’eliminazione del “progetto definitivo”, e viene varato un “allegato I.7” che ridefinisce ulteriormente “i requisiti delle prestazioni che devono essere previsti nel progetto di fattibilità tecnico–economica”.
Il “progetto preliminare” e l’accompagnato “piano di fattibilità economico finanziaria”, richiamati dall’art. 5 in commento, possono identificarsi con il “progetto di fattibilità tecnica ed economica” dell’art. 23 del codice dei contratti pubblici? Se la risposta è affermativa, perché sono state utilizzate espressioni differenti che possono ingenerare confusione? Il dubbio però che si tratti di documenti diversi resta leggendo quanto indicato nel citato art. 23 il quale si riferisce ad una analisi tecnica demandata a figure professionali (architetti, ingegneri), senza un’analisi economica e finanziaria correlata.
Forse allora ci si riferiva all’abrogato art. 17 del dpr 5.10.2010 n.207 in cui si definiva il “progetto preliminare” quale progetto che “definisce le caratteristiche qualitative e funzionali dei lavori” e che poteva comprendere anche un “quadro economico del progetto”.
Anche l’espressione “piano di fattibilità economico finanziaria” non trova un puntuale riscontro nell’ordinamento vigente, che, invece, affida le analisi economico finanziarie ai “piani economico-finanziari” (c.d. PEF- si vedano i ben 21 riferimenti nel codice dei contratti pubblici).
L’assenza di un puntuale riscontro nell’ordinamento accentua quindi l’incertezza dell’amministratore pubblico oppure aumenta la complessità di analisi dipendente da eccessivi documenti raccolti per poter procedere all’affidamento diretto.
5a criticità: destinazione dell’impianto per aggregazione e inclusione
Altro tema di criticità è l’indicazione della norma in commento che l’impianto richiesto in gestione dal privato venga utilizzato per favorire l’aggregazione e l’inclusione sociale e giovanile.
Questa destinazione d’uso dell’impianto sportivo si fonda solo su una progettualità dichiarata in idonee relazioni gestionali prospettiche, demandando poi di fatto allo stesso ente pubblico locale il costante monitoraggio sulla concreta attuazione dei proclami. Ciò porta a soppesare il fatto che l’affidamento consista in un atto di “fiducia” dell’ente pubblico sull’impegno del gestore, fiducia che ridimensiona il suo valore considerando che l’aggregazione e l’inclusione sociale e giovanile rappresentano quasi sempre elementi intrinseci dell’utilizzo di impianti sportivi.
Resta allora la più complessa verifica del rispetto dei progetti operativi ex post da parte dell’ente pubblico, piuttosto che la valutazione ex ante dei propositi aggregativi e inclusivi del potenziale gestore, verifica di carattere qualitativo a seguito di cui potrebbe intervenire un provvedimento di revoca, certamente foriero di contenziosi.
6a criticità: la durata della concessione
Ultimo tema di criticità è la determinazione della durata della concessione che, ai sensi della normativa citata, non può essere inferiore ad un quinquennio.
La durata della concessione comporta un’alterazione delle regole “di mercato” laddove essa sia oltremodo prolungata, escludendo altri potenziali nuovi operatori dalla gestione dell’impianto. Contemporaneamente la durata incide sulla valutazione dell’azione imparziale dell’amministrazione, spostando l’ago verso una visione di “parzialità” laddove tale durata non risponda i requisiti di proporzionalità richiesti dall’art.5 in esame. Infatti, quest’ultimo prevede che la durata sia determinata in proporzione al valore dell’investimento: in altri termini, maggiore è l’investimento iniziale e maggiore la durata della concessione.
In tal senso giova ricordare che sussiste già una normativa che definisce la durata della concessione in modo certamente più puntuale. Ci riferiamo all’art. 168 del codice dei contratti pubblici secondo cui “la durata massima della concessione non può essere superiore al periodo di tempo necessario al recupero degli investimenti … individuato sulla base di criteri di ragionevolezza, insieme ad una remunerazione del capitale investito, tenuto conto degli investimenti necessari per conseguire gli obiettivi contrattuali specifici come risultante dal piano economico-finanziario”.
Ora è di tutta evidenza che l’amministratore locale nel determinare la “durata” dell’affidamento in gestione ricorra all’applicazione dell’art. 168 dianzi riportato, stante l’assenza totale di altri chiarimenti da parte della normativa riformistica. Quest’ultima in tal senso pecca ancora di un eccesso di semplificazione che poi però si tramuta in “assenza” di semplificazione.
Da tutto quanto precede appare inevitabile la necessità di una revisione del d.lgs.38/2021, auspicando che l’eventuale revisione possa altresì comportare un coordinamento con le altre normative vigenti in tema di impiantistica (d.lgs.50/2016, l’art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n.289, commi 24, 25 e 26; l’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, l’art. 15 del decreto legge 25 novembre 2015, n. 185 “Misure urgenti per favorire la realizzazione di impianti sportivi nelle periferie urbane”; l’art. 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, comma 304, “legge sugli stadi”) per una reale e applicabile semplificazione.