Mobilità (in)sostenibile

Un tema che riguarda l’uso della città ma che va affrontato in modo strutturale e non episodico.

Pubblicazione cartacea su: Tsport 354
(foto Tsport).

Nelle grandi città (parliamo, per conoscenza più diretta, di quelle italiane) chi può si sposta con i mezzi pubblici, chi per mille motivi ha bisogno di usare l’auto privata lo fa sperando di trovare un posto dove poi parcheggiarla. A quanto pare, non è una questione di soldi: a Milano, l’aumento del costo per entrare nell’”area C” non è valso a diminuire gli accessi, né l’introduzione a tappeto della sosta a pagamento significa trovare posti liberi in strada. E talvolta neanche nei (pochi) autosilos.

E i mezzi pubblici per quanto frequenti e puntuali siano (a Milano: non so altrove…) non possono soddisfare sempre la domanda di punta dei lavoratori (ore7,30-8,30).

La pandemia degli anni ’20 ci ha poi fatto scoprire la bicicletta (anche qui: a Milano, non so altrove…). E la città è ora pervasa da piste ciclabili disegnate ovunque, su marciapiedi, su careggiate dedicate, sull’asfalto delimitate da segnaletica. Che non viene rispettata (spesso) dai ciclisti stessi (sensi unici, svolte obbligate…). Risultato, la percezione di un aggravamento generalizzato, per gli automobilisti (che si sono visti ridurre il calibro stradale), per i pedoni (che non sanno più dove guardare) e per i ciclisti stessi che vorrebbero sentirsi padroni delle loro ciclabili ma che lo sono solo a tratti.

Nell’ultimo numero di Tsport riprendiamo il tema dell’attività outdoor, che comprende, per nostra consuetudine, anche l’uso della bicicletta intesa come “sport” in senso lato. Diamo quindi, in uno degli articoli dello “Speciale Outdoor”, un’occhiata veloce a quanto si sta facendo per la mobilità sostenibile. Ma è chiaro che premiare l’impegno di volenterose iniziative locali è del tutto insufficiente a risolvere un problema che richiede interventi strutturali a livello urbanistico e territoriale.