Il verde e la città

Superato il criterio della monumentalità, accettato quello della estetica, torniamo in città dopo un excursus sulle strade statali, per trovare il nuovo spirito con cui viene affrontato oggi il rapporto tra paesaggio antropico e paesaggio naturale.

Pubblicazione cartacea su: Tsport 361
Venezia Lido, conflitto fra alberi e città (foto BG/Tsport).

Il rapporto tra il verde e la città non è sempre stato lo stesso. In origine, le alberature contrassegnavano gli itinerari verso luoghi sacri, o delimitavano spazi con significato rituale o simbolico.

Le alberature stradali lungo gli itinerari esterni alle città, come le alberature che segnano i confini dei campi, hanno rivestito, nel corso del tempo, ruoli funzionali e funzioni produttive: legname, foglie, frutti, difesa dal sole, dal vento e dalla pioggia, in funzione degli spostamenti degli animali e delle persone.

È solo dalla fine del ‘700 che l’affiancamento di filari arborei alle strade ha assunto il significato di rendere anche la strada un’architettura monumentale, assegnando segni caratterizzanti al paesaggio.

Invece la città fino al XVIII secolo era uno spazio totalmente sottratto alla natura. Parchi e giardini, quand’anche si ritrovassero entro le mura, erano accessori ai palazzi nobiliari, spazi destinati a pochi privilegiati e non alla pubblica fruizione.

Quatremère de Quincy nel suo Dizionario storico d’architettura (1842) indica quale uno dei primi viali di pubblica utilità (promenade) lo Stradone del passeggio (1760) di Parma, progettato da E.A. Petiot.

In Francia nei trattati di agricoltura del XVI e XVII secolo, destinati anche alla progettazione di giardini e parchi privati, erano contemplati i viali per il passeggio (allée) di cui si forniva un preciso elenco di tipologie (allée couverte, decouverte e contre-allée), completo di dimensioni, tecniche costruttive ed essenze vegetali (Dézallier d’Argenville, 1709). Nel viale coperto, formato da alberi le cui chiome si uniscono alla sommità, prevale l’aspetto funzionale di riparo dai raggi del sole, mentre quello scoperto, impiegando alberi più bassi, pone l’accento sulla struttura delle zone verdi adiacenti e sul paesaggio.

È la concezione urbanistica ottocentesca a diffondere in Europa il concetto del viale urbano, rappresentata in primo luogo dalla Parigi di Haussmann che con Jean Charles Adolphe Alphand inserì 80.000 piante nei nuovi grandi boulevard, tra il 1853 e il 1869.

Sul finire dell’Ottocento, in tutte le grandi città europee, nascevano viali alberati confluenti verso grandi piazze anch’esse alberate, con una visione sempre “monumentale” del verde.

Contemporaneamente i grandi parchi nobiliari e le riserve di caccia venivano trasformati in parchi pubblici: a Parigi il Bois de Boulogne e il Bois de Vincennes, a Londra St James Park e Hyde Park, il Belvedere a Vienna, Villa Borghese a Roma, solo per fare qualche esempio.

La guerra agli alberi negli anni ‘60

Dall’ottocento abbiamo dunque ereditato, nel XX secolo, l’idea del viale alberato e del parco o giardino pubblico, come elementi ornamentali della città.

È interessante ricordare, come incidente di percorso, la vicenda della guerra agli alberi lungo le strade statali. Con l’aumento del traffico e degli incidenti stradali all’inizio degli anni ’60 l’ANAS decise che andavano abbattuti tutti quelli che risultavano troppo vicini al ciglio della carreggiata lungo le Strade Statali: scomparvero così oltre 100.000 alberi lungo le strade italiane. Solo una circolare del Ministero dei Trasporti nel 1966 pose fine ai tagli indiscriminati; tutt’oggi, comunque, il Codice della Strada prevede che “la distanza da rispettare per l’impianto di alberi lateralmente alle strade extraurbane non può essere inferiore alla massima altezza raggiungibile per ciascun tipo di essenza a completamento del ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 metri”.

Una ulteriore, più recente, circolare consente di mantenere gli alberi piantati prima del 1992 (entrata in vigore del Codice), pur rimanendo il divieto di reimpianto in violazione delle suddette distanze.

La visione del XXI secolo e il cambiamento climatico

Gli aspetti ecosistemici delle alberature in città sono oggi diventati prioritari: a cominciare da riduzione dell’inquinamento atmosferico, mitigazione delle isole di calore e gestione delle acque di prima pioggia.

Chiaramente l’attenzione, tra l’uomo e la pianta, deve essere reciproca. Scelta delle specie, collocazione, manutenzione, potatura, devono essere adeguate. Radici affioranti dall’asfalto, rami sporgenti, interferenze reciproche, soffocamento dell’apparato radicale per mancanza di spazio, vanno prevenuti in partenza.

È in particolare il problema del cambiamento climatico che ha fatto prendere coscienza del nuovo ruolo che il verde urbano deve assumere.

Indipendentemente dal fatto che la causa sia antropica in misura più o meno preponderante, le caratteristiche del clima negli ultimi decenni sono obiettivamente mutate, portando alla necessità di agire su due fronti: tentare di frenare il cambiamento e, contemporaneamente, adattarsi alle nuove condizioni.

Sul piano dei provvedimenti normativi, i primi passi a livello nazionale in tema di adattamento ai cambiamenti climatici sono stati compiuti nel 2015, con l’adozione della “Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” (SNAC), che ha analizzato gli impatti e la vulnerabilità per i principali settori ambientali e socioeconomici, delineando un insieme di proposte e criteri d’azione.

Con l’adozione, nel 2021, della nuova “Strategia Europea di adattamento per plasmare un’Europa resiliente ai cambiamenti climatici” è stato istituito un gruppo di lavoro con l’obiettivo di accelerare le attività finalizzate all’approvazione del “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” (PNACC), pubblicato nel dicembre 2022.

L’obiettivo principale del PNACC è fornire un quadro di indirizzo nazionale per l’implementazione di azioni finalizzate a ridurre al minimo possibile i rischi derivanti dai cambiamenti climatici, a migliorare la capacità di adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali, nonché a trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare con le nuove condizioni climatiche.

Il Piano intende, inoltre, rispondere alle esigenze di coordinamento tra i diversi livelli di governo del territorio e i diversi settori di intervento. Esso pone le basi per una azione di breve e di lungo termine, articolata su due livelli di intervento: uno “sistemico”, l’altro di “indirizzo”.

Per quest’ultimo livello, il Piano fornisce indirizzi per la pianificazione a scala regionale e locale rappresentati da due allegati: le “Metodologie per la definizione di strategie e piani regionali di adattamento ai cambiamenti climatici” e le “Metodologie per la definizione di strategie e piani locali di adattamento ai cambiamenti climatici”.

È in questo quadro che si inseriscono le prime iniziative amministrative locali, fra le quali quella del Comune di Trento, che nel dicembre scorso ha approvato il Piano del Verde, in collaborazione con lo studio LAND Italia e l’Università di Trento (che descriviamo in questo articolo).