Lo stadio di Wembley, a Londra, inaugurato nel 1923, è stato demolito oltre 20 fa. Ma Wembley è un “luogo”, e l’impianto firmato da Sir Norman Foster aperto nel 2007 ne eredita la storia: una storia lunga un secolo.
Cento anni di Wembley
(Tutte le immagini del servizio sono di Antonio Cunazza)
Il 28 aprile 1923, a Londra, veniva inaugurato lo stadio di Wembley, prodotto di un’idea quasi improvvisa, tutto fuorché lungimirante e che nessuno poteva pensare avrebbe portato a creare un mito centenario, al di là della sua stessa architettura.
L’anniversario che si celebra in questo 2023, infatti, è tecnicamente quello di uno stadio che non esiste più da oltre vent’anni. Ma nessuno ci fa caso, tale è la forza evocativa del “luogo” Wembley, sul quale in questo secolo di vita si sono avvicendati due impianti del tutto diversi, con il secondo inaugurato nel 2007 e oggi sotto i nostri occhi ma nemmeno ancora maggiorenne.
Probabilmente ci sarebbero stati sorrisi indulgenti nei mesi del 1923, quando lo stadio iniziava ad aprirsi al pubblico, principalmente come fulcro dell’allestimento dell’Expo dell’Impero Britannico, se qualcuno avesse ipotizzato 100 anni di mito sportivo da lì a venire.
La nascita di Wembley
Wembley nasceva come una sorta di riempitivo: doveva ospitare le cerimonie principali di quell’Expo, era stato progettato da architetti che non sapevano nulla di stadi (e che infatti avevano preso a modello gli unici due impianti britannici con pista attorno al campo, Ibrox e Stamford Bridge), ed era l’ennesimo tentativo di riempire un’area verde all’epoca appena fuori Londra verso ovest, dove già si era immaginato un parco per lo svago con un’improbabile gemella della Tour Eiffel (la Watkin’s Tower, poi mai realizzata).
Al termine dell’Expo, nel corso del 1925, l’idea era demolire Wembley insieme allo smantellamento di tutti i padiglioni della fiera. E poco importa che lo stadio, gigantesco, con una tribuna centrale modellata sull’architettura eclettica del Palazzo del Viceré di Nuova Delhi in India, due splendide torri laterali e un ovale in pianta di 275×198 metri (paragonato anche al transatlantico Aquitania), fosse davvero il primo stadio monumentale dell’epoca moderna.
La realtà è che non si sapeva bene cosa fare di uno stadio tanto grande (130mila posti all’epoca). Il calcio aveva appena fatto capolino con la prima finale di Coppa d’Inghilterra ospitata lì nel 1923 ma le potenzialità del gioco erano ancora tutte da scoprire. L’edificio fu infine salvato dalla demolizione con un’idea del tutto diversa: rilanciarlo come stadio nazionale per le corse motoristiche e, soprattutto, per le corse dei levrieri – una delle grandi passioni britanniche di quel tempo, che poi sarebbero diventate un culto nel corso della seconda metà del secolo.
Qualunque cosa dei primi vent’anni di vita di Wembley, quindi, sembra casuale, non pianificata o prevista, alle volte improvvisata sul momento.
Wembley, non solo sport
Dal Secondo Dopoguerra in poi, però, lo stadio iniziò a essere “scelto” dal mondo come luogo centrale per qualunque grande avvenimento, non solo sportivo. Fu un percorso lento e naturale, trainato dalle Olimpiadi del 1948 (che qui passarono per qualche gara) e dalle finali di coppa del calcio inglese, che erano diventate il momento più importante dell’anno per la società britannica entusiasta e alla ricerca di tradizioni forti e identitarie dopo la guerra.
Il mondo si accorse che Wembley aveva qualcosa di magico, la sua architettura era evocativa, classica e imponente, e grazie ai tanti racconti (e alle poche immagini disponibili) la percezione di questo impianto diventava ancora più affascinante, avvolta da una nebbia che ne aumentava la curiosità e il mito.
Nel corso della seconda metà del Novecento nessuno decise a tavolino che Wembley doveva diventare il tempio dei concerti di musica pop e rock, che avrebbe ospitato il Live Aid 1985 (l’evento musicale forse più grande della storia – e che si svolse in contemporanea anche a Philadelphia ma quasi nessuno lo ricorda), o che il celebre stuntman motociclista americano Evel Knievel l’avrebbe scelto come teatro di uno dei suoi salti più spettacolari e pericolosi.
Non c’era un piano per far diventare Wembley lo stadio a cui tutti ambivano ma semplicemente accadde: qualunque sport passò da qui per disputare gare da evento-unico (rugby, baseball, football americano, la boxe con due storici incontri di Muhammad Alì, l’hockey su prato), Papa Giovanni Paolo II disse messa nel 1982 nell’ambito della sua visita nel Regno Unito (la prima di sempre per un Papa), il calcio continuava a passare da Wembley nei suoi momenti più importanti e unici.
La nuova vita di Wembley
Alla fine del secolo, però, penalizzato dal passare del tempo e dai cambiamenti del mondo, arrivò il momento di decidere il destino di questo stadio, ormai scomodo e in parte decrepito, che non poteva più reggere il passo con le dinamiche contemporanee.
Il progetto di totale demolizione e ricostruzione (avvenuto fra il 2001 e il 2007, con il nuovo stadio firmato da Sir Norman Foster) sembrò chiudere definitivamente questa storia, consegnandola soltanto alla memoria di chi l’aveva vissuta. E invece, nonostante la cancellazione delle due torri-simbolo del vecchio impianto, la drammatica trasformazione urbana del quartiere (con l’invasione della nuova Londra negli spazi di quella che una volta era una radura) e lo stravolgimento del modo di pensare e vedere lo stadio, il nuovo Wembley è riuscito nel compito di reggere il peso del suo predecessore e portarne avanti il mito.
Il nuovo stadio è stato il risultato di una scelta molto coraggiosa, molto rischiosa ma alla fine vinta. Nonostante alcuni aspetti non per forza positivi (ma figli del momento storico attuale, dal gigantismo architettonico ad alcune scelte urbanistiche quasi intensive ed esagerate, vedi Tsport 346), il nuovo stadio di Wembley ha descritto una parabola di rinascita che prolunga la storia dell’impianto, e viene oggi naturalmente percepita come un filo unico, lungo 100 anni.
Potremmo dire che Wembley, quindi, è l’esempio del punto più alto a cui ambisce l’architettura: creare qualcosa che sia capace di entrare nella storia e nell’immaginario di diverse generazioni, andando oltre sé stesso, la sua forma o la sua struttura.
E la straordinaria eccezionalità di questo caso non è solo il fatto che si tratti di un impianto sportivo (non esistono altri stadi contemporanei che hanno raggiunto un tale status culturale ed evocativo) ma che sia in effetti un’architettura figlia della nostra epoca (contemporanea o Novecentesca, come preferite): Wembley è una delle poche tracce che per ora il mondo moderno è riuscito a lasciare nella storia, universalmente (ri)conosciuto, testimone dei cambiamenti sociali e culturali, capace di sopravvivere a sé stesso rafforzando la sua unicità simbolica.
L’architettura è ciò che fa diventare “luogo” un posto (Louis Kahn, architetto).
Wembley lo è diventato.