Nell’ambito di una pianificazione urbana sempre più integrata e volta alla creazione di spazi sostenibili e a misura del cittadino, i nuovi stadi contemporanei stanno diventando soggetti architettonici che possono rivestire un ruolo-chiave nello sbloccare (o attirare) progetti su larga scala, passando dallo specifico impianto sportivo al ripensamento di intere aree adiacenti.
Stadi e rigenerazione urbana: il caso di Londra
Panorama di Londra, con l’O2 Arena in primo piano (foto Ingus Kruklitis).
Questa evoluzione di approccio e ragionamento è sempre più evidente negli ultimi anni, e in particolare lo è in parallelo allo sviluppo dello sport (ma soprattutto del calcio) come realtà che crea business e che deve dipendere da schemi e necessità economiche primarie.
Se in Italia il dibattito sui nuovi stadi si infrange ancora su paletti di vecchia concezione, che spesso impediscono di vedere le città come conglomerati dinamici in fase di cambiamento (oltre a una mancanza di investimenti economici che fa la sua parte), all’estero questo processo di integrazione fra sport e urbanistica è già ampiamente avviato e ha portato alla creazione di veri e propri modelli d’intervento, oltre alla realizzazione di alcuni casi-studio che definiscono il periodo post-1990.
Le grandi Nazioni europee hanno approntato, in tempi diversi, modelli di rinnovamento diversi dei propri stadi (Inghilterra, Francia, Spagna, Germania) ma, andando nello specifico, un esempio rilevante di rapporto fra nuovi impianti sportivi e rigenerazione urbana si può leggere sul tessuto di una singola città: Londra.
La capitale inglese, già trasformata a livello urbano e architettonico in modo quasi drammatico dagli anni ‘90 a oggi, ha trasferito la sua visione contemporanea anche all’interno dei progetti dei nuovi stadi di calcio, accompagnando quel percorso di globalizzazione che la Premier League aveva intrapreso dal 1992 in poi. Per necessità economiche e di immagine, quindi, ma anche legislative (v. Taylor Report, 1990, sui requisiti degli impianti sportivi britannici), tutti i club inglesi hanno dovuto prima o poi metter mano ai propri stadi fra gli anni Novanta e Duemila, e Londra – già culla di oltre una dozzina di club professionistici – ha assistito alla realizzazione di progetti che definiscono un certo tipo di approccio (talvolta dirompente) verso l’esistente e il costruito.
Il Chelsea come apripista di una visione contemporanea
In principio fu il Chelsea a introdurre l’embrione del futuro calcio-business, quando a fine 1990 l’allora proprietario del club, Ken Bates, decise di ricostruire quasi del tutto lo stadio Stamford Bridge, passando dal vecchio impianto ovale (1876) dispersivo e ormai desueto a un nuovo edificio che metteva insieme il comfort dei futuri stadi con i servizi dell’hotel di lusso e degli appartamenti residenziali interni alla tribuna. Era una rivoluzione per l’epoca, una visione d’avanguardia che secondo Bates doveva trasformare il semplice stadio in un luogo che attirasse tifosi-consumatori, creando un business a medio termine per il club. Quello che oggi è diventato la normalità.
Il progetto del nuovo Stamford Bridge (KSS Design Group, 1990-1998) era riuscito a incasellarsi attorno allo stesso rettangolo di gioco del precedente impianto, e ancora compreso fra gli spazi residenziali e il tratto ferroviario del quartiere di Hammersmith & Fulham, ma allo stesso tempo era stato in grado di produrre un edificio del tutto nuovo e che, a tratti, dall’esterno non era nemmeno riconoscibile come uno “stadio di calcio”.
Quando, pochi anni dopo, Ken Bates entrò nel consiglio direttivo della Football Association inglese, riportò il concept di Stamford Bridge sul tema del destino del vecchio stadio nazionale di Wembley: in una fase in cui l’iconico impianto era a fine ciclo, sia per problemi strutturali che funzionali, Bates diede una spinta decisiva all’idea di ricostruire lo stadio come una nuova grande architettura contemporanea, che guardasse al nuovo millennio dal punto di vista dei servizi e del comfort, ma potesse anche trainare lo sviluppo urbanistico dell’area circostante, che all’epoca era pressoché del tutto ex-industriale (e che oggi, invece, è diventata un nuovo polo urbano della città).
Il rapporto con i quartieri: Tottenham e Arsenal
Risolti in tempi diversi ma associabili fra loro per rivalità (sportiva) e concetto di partenza, Arsenal e Tottenham hanno perseguito la strada del rinnovamento nel post-Duemila, con scelte che hanno avuto una ricaduta rilevante sul lato urbano. Per sua stessa natura, e per tradizione dei club, infatti, Londra è sì una gigantesca metropoli ma vive nella specificità dei suoi singoli quartieri, che spesso hanno un’identità più assimilabile a quella di un piccolo paese di campagna piuttosto che di uno spazio di città contemporanea.
Il progetto del nuovo stadio del Tottenham (Populous, 2019) ha dovuto fare i conti con la realtà di un quartiere di grandi differenze sociali, con un tessuto costruito consolidato e difficilmente modificabile. Il nuovo impianto è stato realizzato sul sedime del vecchio White Hart Lane (1899), sfruttando le ridotte dimensioni dell’isolato come un’opportunità per trovare soluzioni ancor più vantaggiose per la conformazione del catino interno di gradinate, e calando un edificio scintillante all’interno di un’edilizia residenziale del primo Novecento.
Nel caso del Tottenham, lo sforzo è stato far coesistere la nuova struttura con gli spazi esistenti, ma lo spunto alla base derivava certamente dall’operazione di rinnovamento che avevano compiuto i cugini/rivali dell’Arsenal oltre un decennio prima. Sempre firmato da Populous, l’Emirates Stadium fu inaugurato nell’estate 2006 e rappresenta ancora oggi una delle tappe di riferimento nell’evoluzione dell’architettura sportiva rivolta al business. Ancor di più a causa di cosa lasciava dietro di sé l’Arsenal, ovvero lo stadio Highbury.
Qui si nota un altro risvolto dell’approccio anglosassone diretto e dirompente sul tema dell’esistente e della rigenerazione urbana. Da una parte il nuovo Emirates Stadium permise di trasformare un quadrante (in realtà dalla forma triangolare) dal passato industriale e ormai inutilizzato, restituendo un ampio spazio pubblico che conduce al podio dello stadio, collegato con ponti pedonali alle vie limitrofe e alle stazioni ferroviarie.
Dall’altra c’era il problema dell’addio del club al vecchio stadio di Highbury (1913), edificio tutelato dai Beni Culturali inglesi (English Heritage) per il valore storico delle sue facciate in stile Art déco. La soluzione fu quella di trasformare Highbury in un complesso residenziale privato, che ricalcasse i volumi delle ex tribune come nuovi blocchi condominiali (e un giardino interno al posto del campo), conservando le due singole facciate di valore architettonico (tecnicamente proprio le due pareti esterne in adesione alle nuove parti di edificio) e mantenendo quindi sia l’identità del luogo sia il suo impatto volumetrico e visivo sul quartiere. Ma certo, con un’operazione architettonica di taglia e cuci forse troppo esagerata per i nostri canoni, e per alcuni versi vicina a un certo tema di mero “feticismo” della storia.
Il nuovo West Ham “Olimpico”
Più ad ampio respiro, infine, il caso del West Ham, club di culto dell’area est di Londra per storia sportiva e sociale, che per il suo nuovo stadio ha abbracciato l’eredità post-olimpica cittadina tracciando una linea netta rispetto al proprio passato. Già da tempo alla ricerca di idee per ampliare Boleyn Ground (1904-2016), il club ha colto l’opportunità di acquisire l’uso dell’ex Stadio Olimpico (oggi London Stadium), nato per i Giochi 2012 e al centro di uno dei più grandi progetti di rigenerazione urbana per Londra negli ultimi cinquant’anni: il rinnovamento del macro-quartiere di Stratford è un’operazione di architettura e urbanistica che, a dieci anni dai Giochi, sta ancora proseguendo nel solco della creazione di spazi, edifici ed edilizia residenziale in grado di riempire uno dei vuoti urbani più grossi della città. E in questo senso, il ridimensionamento dello stadio (che dopo le Olimpiadi venne ridotto strutturalmente, con lo smontaggio dell’anello superiore di gradinate, già pensato temporaneo), è diventato spunto utile per permettere al West Ham di prenderne possesso – anche se in affitto dalla municipalità – lasciando però l’identità di quartiere di Upton Park, con il vecchio impianto oggi scomparso e sostituito da condomini.
Un percorso ancora diverso, quindi, dove c’è una componente di eredità sportiva che si intreccia con un piano urbanistico su larga scala sul quale la città si è impegnata con risorse e pianificazione.
Infine, merita una menzione il nuovo stadio dell’AFC Wimbledon, minore ma interessante caso di recupero e rilancio di uno spazio sportivo quasi dimenticato. Varie vicissitudini sportive ed economiche avevano condotto il club su un percorso errante di fallimento, rifondazione e riposizionamento (per qualche tempo anche con una società parallela in un’altra città) ma più recentemente si è colta l’opportunità di riportare la squadra nel suo omonimo quartiere, costruendo il nuovo stadio Plough Lane (KSS, 2020) sul sito del vecchio Wimbledon Greyhound Stadium, storico impianto per le corse dei cani destinato alla demolizione. Il progetto ha così permesso di recuperare uno spazio urbano senza futuro, riportando il Wimbledon a giocare nel suo quartiere e realizzando un piccolo intervento di rigenerazione urbana locale che garantisce il futuro della zona e il legame con i residenti e i tifosi.
Londra rimane un caso quasi eccezionale all’interno di un percorso che vede gli stadi nuovi come opportunità di progetti urbani più ampi. Ma per varietà dei singoli progetti, la capitale inglese rappresenta un esempio da considerare. È impossibile pensare di fare un copia/incolla ad altre latitudini (anche per alcuni approcci fin troppo estremi per i nostri standard concettuali) e va invece sottolineata l’efficacia di un decisionismo progettuale che punta a rinnovare il costruito nell’ottica di aumentare il valore degli spazi urbani e della vita dei cittadini.